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I nodi al pettine

Consigli per la sopravvivenza del lucasdelirante sperduto

by Diduz

Tra il marzo e l'aprile del 2013 si sono verificati tre episodi più o meno gravi per i fan dell'eredità LucasArts e del lavoro dei suoi ex. Nell'ordine:

  1. Ron Gilbert ha comunicato sul suo blog di aver lasciato la Double Fine dell'amico Tim Schafer.
  2. I Telltale hanno dichiarato di non essere al momento più interessati ai vecchi marchi e alle loro specifiche dinamiche di gameplay.
  3. La LucasArts è stata smantellata.

La quasi coincidenza di questi tre significativi avvenimenti, non dipendenti l'uno dall'altro, è sufficiente ad alimentare un pessimismo cosmico da manuale. Siccome tale atteggiamento non mi apparterrà mai, penso che valga la pena soffermarci più approfonditamente sulle tre pesanti notizie. Il mio scopo non è quello di consolarvi irrazionalmente (non funzionerebbe), né di onorare il passato (il sito intero adempie già al compito da tredici anni). Questo articolo nasce invece da una mia constatazione di questi ultimi giorni: la cancellazione del 2004 di Sam & Max : Freelance Police non segnò la fine di un'era, ma l'inizio di una fase di transizione che è giunta al termine proprio adesso.

1. Il dilemma del Ron

Il tragitto creativo di colui che ha definito i canoni dell'avventura grafica punta & clicca, con Maniac Mansion e The Secret of Monkey Island, è in un certo senso il simbolo del riadattamento di diversi suoi colleghi a un mondo videoludico radicalmente diverso da quello di vent'anni fa. Nato come programmatore e tutt'ora coder nell'anima, Gilbert ha dato il meglio nell'epoca in cui l'ideazione e il design di un videogame erano indistinguibili dalla sua costruzione informatica. Ideare qualcosa e costringere il computer ad attuarla, improvvisando con un piccolo team, era la prassi. Da Monkey Island 2 a DeathSpank, per diciotto lunghi anni, Gilbert si è sentito alieno all'evoluzione del design, vestendo i panni del producer per i titoli destinati all'infanzia dell'Humongous Entertainment e per la saga di Total Annihilation. Al suo ritorno nel 2010, forte del digital-delivery che ha abbassato le smodate pretese economiche del mercato retail, si è presentato con lo stesso spirito di allora, ma con risultati per molti non paragonabili a quelli della Golden Age.

 

 

Il fan ha bisogno di miti, e per tutti noi i designer della fu LucasArts lo sono. Proprio per questo un considerevole imbarazzo è nato davanti a chi, prima ancora di Ron, si è rigettato nella mischia annaspando come pochi si sarebbero aspettati: Hal Barwood e Noah Falstein con Mata Hari, Larry Ahern con Insecticide, in misura minore (salvato da ambizioni più ridotte) Bill Tiller con A Vampyre Story e Ghost Pirates. Come i recenti DeathSpank e The Cave di Gilbert (comunque più riusciti dei citati), questi titoli hanno sofferto di un'attuazione incompleta di idee concettualmente degnissime della LucasArts.
Per proteggere il mito, il fan copre il dubbio, rimandando il nuovo momento di gloria dei suoi beniamini a tempi migliori, al momento mistico in cui a Ron e ad altri venga data la possibilità di rifare una "vera" avventura grafica punta & clicca "come si deve". Ed ecco che Ron, prima che esca Broken Age, apparente araldo di un futuro radioso, al quale ha collaborato nel brainstorming iniziale, molla Tim e la Double Fine per programmare un giochino iOS, Scurvy Scallywags!
È una sberla, ma di quelle che svegliano.
Dice Ron sul suo blog (nei commenti):

Mi piace provare cose nuove, esplorare. Fare e rifare lo stesso gioco, come molti vogliono che faccia, è noioso. Se facessi un nuovo punta & clicca, la gente direbbe che non è all'altezza di Monkey Island. Ma non si starebbero realmente lamentando di quello, si lamenterebbero in realtà perché non sarebbe all'altezza della loro nostalgia ventennale di Monkey Island. Non posso competere con una cosa del genere, nessuno può.

Considerazione che credo sia molto più sincera del tormentone pluriennale del "mi piacerebbe fare un altro Monkey Island", il suo "Monkey Island 3". Non a caso in un recente podcast, quando l'intervistatore gli ha domandato cosa farebbe se mai avesse sul serio questa possibilità, ha risposto scherzando(?): "Sarei fottuto." Già.
La nostalgia però non è l'unico problema, è anche la maledizione della passata perfezione a deprimere autori e fan. Fino a quando questi autori non si erano rimessi in gioco, testandosi al di fuori della magia collettiva che fu la LucasArts, erano il Messia. Ora c'è solo un modo per accettarli nella nuova era che inizia.
Ridimensionarli.

 

 

I giochi di cui sopra hanno tutti, in design e/o sceneggiature, idee pregevoli e soprattutto specchio delle personalità di chi li ha creati. Se frequentate questo sito, mi azzardo a pensare che, sotto sotto, sia questo che vi interessi, più della loro piena riuscita. Dopo la chiusura della LucasArts c'è stato chi, nel marasma di ricordi e commenti, ha parlato di una qualità trattata da me più volte: la palpabile presenza in quei giochi di menti sperimentanti, fantasiose, creative, sempre intente a porsi domande sull'interazione, persino quelle apparentemente inutili. Ammettendo che Gilbert, Ahern, Tiller, Barwood o Falstein non sono più una garanzia automatica di grandi giochi, possiamo alleggerirci il cuore per apprezzare quello che ci è rimasto: sono ancora garanzia di se stessi. E quanto più lo sono a corpo morto, tanto più penso che meritino il mio interesse. [Non a caso col recente progetto di Thimbleweed Park, Ron sembra aver trovato un modo di costruire il suo ritorno al punta & clicca proprio giocando sull'idea della propria storia creativa personale, e non solo di una generica nostalgia collettiva, ndDiduz del dicembre 2014].
So cosa qualcuno starà pensando: Tim Schafer alla Double Fine o Dave Grossman alla Telltale non sono però eccezioni? I loro nuovi lavori non sono stati accettati con più entusiasmo di vendite e critica? Ci sto arrivando.

2. Il "tradimento" dei Telltale

A Dan Connors, producer del cancellato Sam & Max Freelance Police, quella decisione della LucasArts non è andata proprio giù. È il 2004, ma lui già crede fermamente nella possibilità di affidarsi alla rete per un'alternativa al costoso retail. È evidente che per provare la teoria debba mettersi in proprio. Tre mesi dopo la cancellazione, nel giugno del 2004, fonda con Kevin Bruner (del fatidico gioco capo-programmatore) i Telltale Games. La loro esistenza non è notata però prima di un anno, quando il motore Telltale Tool è ultimato e messo alla prova con un casual game e con Bone : Out From Boneville. La reazione a quest'ultimo è quasi unanime: troppo breve, troppo facile. Imporre al pubblico di riferimento, che li segue dalla LucasArts, in una botta sola gioco episodico, digital-delivery, enigmi leggeri, minigiochi e linearità, è strafare. La volontà essenzialmente narrativa di Connors e dei suoi nel 2005 è troppo casual per il momento storico. Affidandosi a Dave Grossman, il secondo Bone diviene un'avventura grafica più complessa, ancora priva però del traino necessario a stabilizzare la compagnia. Nel frattempo la strada più facile è stata trovata ed è peraltro l'occasione personale per rimediare a un torto subito: il recupero di Sam & Max, tornati in scena alla fine del 2006.

 

 

Fast forward.
Dopo aver resuscitato Sam & Max e Guybrush Threepwood con Tales of Monkey Island ed essere stati additati dai meno esigenti (incluso me) come un faro delle avventure grafiche moderne, alla fine del 2010 i Telltale producono Back to the Future : The Game e ci lasciano interdetti. Sembra di essere tornati ai tempi di Bone. Incidente di percorso? No, strategia. Lo segue un Jurassic Park, laser-game / interactive novel che ammicca a Heavy Rain, e nel frattempo riaffiorano persino i casual game con Poker Night at the Inventory e Puzzle Agent. Marcia indietro?
Il digital-delivery, nel 2005 non ancora accettato dalla maggioranza dei giocatori, è diventato uno dei principali canali di distribuzione, con una conseguente apertura a un bacino d'utenza più vasto. La diffusione e la diversificazione delle macchine connesse alla rete va di pari passo al muoversi vorticoso dei contenuti: senza tabù o aspettative, migliaia di persone possono scaricare, giocare e finire in poche ore. Grossman si è già anni fa posto in ascolto di questo utente occasionale. Fahrenheit di David Cage nel 2005 fu un esperimento, ma il suo Heavy Rain nel 2010 viene recepito come proposta d'intrattenimento legittima e discussa. Insomma, è il momento per provare a tornare a bomba. Connors e Bruner dunque ci riprovano a raccontare con la leggerezza interattiva, ma la ripartenza è pessima.

 

 

Back to the Future vende bene ma è accettato con molte riserve, quando non demolito, mentre Jurassic Park, disastro di critica e di pubblico, sembra preannunciare la fine. Saggezza vorrebbe che si tornasse alle avventure grafiche, agli enigmi da risolvere, al pubblico di riferimento, piccolo ma buono. E invece arriva The Walking Dead, versione migliorata del gameplay di Jurassic Park, corretto con le pause e gli input di un'avventura grafica. O la va o la spacca.
La va. Anzi, esplode. 8 milioni di copie, più di ottanta premi in giro per il mondo, espansione dello studio, conferenze, (nuovi) fan in delirio.
Dovete scusarmi per il riassunto, ma credo sia importante guardare le cose da lontano per comprendere le ultime settimane. La licenza di King's Quest, vecchio marchio avventuriero della Sierra, acquisita all'inizio del 2011 dai Telltale per alimentare l'immagine da "salvatori del genere avventura", viene adesso abbandonata senza nulla di fatto. Quasi contemporaneamente, Connors lascia poco spazio ai dubbi.

In quel periodo di transizione tra Back to the Future, Jurassic Park e The Walking Dead penso che abbiamo davvero trovato la voce dei Telltale, mentre un Monkey Island aveva le sue radici, profonde, in quel tipo di giochi stile LucasArts che ci hanno fatto considerare in passato la "piccola LucasArts". Anche se ci ha permesso di fare grandi cose con la narrazione, nei cliffhanger, nelle emozioni e nei personaggi che potevi amare, per cui potevi provare qualcosa, non offriva un'esperienza di gioco che lo distinguesse da ciò che era venuto prima, a differenza di The Walking Dead.[...]

 

 

Io credo che questo tipo di materiale classico porti con sé delle aspettative che ci chiudono in un angolo, portandoci a deludere il pubblico in un modo o nell'altro, se non rimaniamo fedeli alle radici. In questo momento invece ci troviamo in una situazione che ci spinge a muoverci in nuove direzioni. Credo che ci sia ancora una possibilità di tornare su alcuni di quei vecchi marchi per modernizzarli, ma ora come ora ci stiamo concentrando su The Walking Dead e The Wolf Among Us (dal fumetto Fables). Ci tengono la mente parecchio occupata. Dobbiamo ancora decidere cosa faremo dopo, ma penso ci muoveremo verso annunci forti, che guardano al futuro. Credo che "modernità" sia la parola chiave, ripescare il passato in questo momento non è una nostra priorità.

Sono macigni per l'appassionato del punta & clicca, ma non sono macigni privi di rispetto. Bella consolazione, direte voi, in fondo hanno cancellato un gioco di nicchia e stanno puntando a quello che rende di più, come fece la LucasArts nel 2004. Fino a un certo punto.
Quando la Lucas cancellò Freelance Police (e Hell on Wheels prima, non dimentichiamolo), si arrendeva. In questo caso invece storie, personaggi e interazioni narrative rimangono le colonne dei Telltale, sono solo declinate in modo differente. Il 2004 fu un brutto momento perché una strada gloriosa non veniva abbandonata in favore di un'altra che fosse per l'azienda una crescita: per i Telltale invece l'acclamazione di The Walking Dead rappresenta il primo riconoscimento vasto di una proposta distintamente loro (videoludicamente parlando), che porta l'industria intera a guardarli come un modello da studiare nella narrazione interattiva. Il che, se ci pensate, era lo status della LucasArts dei tempi d'oro.

 

 

La cancellazione di King's Quest non è paragonabile a quella di Freelance Police: il primo non era nemmeno entrato in produzione (il secondo eccome!), e l'attesa del King's Quest telltaliano era nel migliore dei casi incuriosita, nei casi peggiori e più frequenti foriera di oscuri presagi. Presagi intercettati da Connors nelle parole di cui sopra: i marchi prettamente videoludici non diventeranno interactive novel, film interattivi con Quick Time Event o esperimenti "emozionali" [nel 2014 lavori successivi come Tales from the Borderlands e Minecraft: Story Mode sembrano aver negato quanto scrissi, ma solo in apparenza: si tratta di spin-off narrativi paralleli a titoli che nella loro incarnazione primaria non si basano sul raccontare, non c'è quindi sostituzione del genere d'appartenenza, ndDiduz nel dicembre 2014]. Rimane ovviamente il problema del finale appeso di Tales of Monkey Island: ne parlo al punto 3.
La LucasArts produsse in quattordici anni 15 avventure, i Telltale in sette anni hanno prodotto 12 serie più quattro piccoli giochi (calcolo le avventure, fino a Back to the Future). In metà del tempo una quantità analoga di produzione ha raggiunto lo stesso punto di saturazione, in modo però più naturale. Sette anni fa non poteva andare altrimenti: all'interno del genere i Telltale non hanno fatto altro che proseguire il discorso che dalla LucasArts era stato spezzato. Era troppo presto nel 2005 per proporre qualcosa di nuovo, perché il passaggio del testimone era stato interrotto da uno sgambetto: con la caviglia storta, non si poteva ripartire in quarta. E ciò valeva per loro e per noi.

 

 

I Telltale, così come la Double Fine di Tim Schafer, sono riusciti nell'intento di tenere in vita una tradizione di creatività e rinnovamento perché, a differenza degli esempi di designer che ho elencato nel punto precedente, hanno creduto nella creazione di una squadra, di una cultura aziendale che si riconosce in alcuni aspetti dell'amata LucasArts passata a miglior vita, tra cui il pionerismo, la volontà di distinguersi e di coinvolgere il pubblico omaggiando o metabolizzando le altre arti. Entrambe le case si avvalgono di ex-Lucas come Grossman, Schafer, Mike Stemmle, Peter Chan, Peter McConnell e altri meno famosi, ma hanno creato e stanno tuttora creando una progenie di giovani autori idealmente intercambiabili, grazie al prestigio di un'azienda che li rappresenta ed è da loro rappresentata. Questa solidità porta sempre frutti, ma i figli non crescono sempre copie carbone dei padri, non almeno i figli dei buoni padri, ergo qualcosa si modifica col passare degli anni. Stacking e The Walking Dead sono prodotti atipici rispetto a un Day of the Tentacle, eppure profumano di una LucasArts che non siamo mai arrivati a vedere: sono stati creati rispettivamente da Lee Petty e dalla coppia Sean Vanaman-Jake Rodkin, che alla LucasArts non hanno mai messo piede, se non idealmente nel caso di Rodkin, ex-corresponsabile dell'irrinunciabile fansite Mixnmojo.
Il lucasdelirante è chiamato a rinunciare a qualcosa della vecchia formula in cambio di un'autorialità rispettosa del passato ma non più gregaria: non è obbligato, ma la proposta è questa.

3. La fine della LucasArts

Legato all'animazione disneyana quanto lo sono alle classiche avventure della LucasArts, non posso che avere sentimenti contrastanti di fronte a un'amara sintesi come questa a sinistra. Per come la vedo io, alla Disney imputo "solo" il dramma umano di 150 dipendenti licenziati in un sol colpo, ma in tutta franchezza io in quell'immagine al posto di Topolino, come ho anticipato in serie di news, ci avrei messo Darth Vader.

E non sono mica il solo a pensarla così: lo suggerisce il Guardian, ne è convinto il buon David Fox (papà di Zak MacKracken). Riassumendo a grandi linee, la necessità nel 1999 di ribadire l'attualità della saga cinematografica di Star Wars, al di là dell'omaggio alla vecchia trilogia, ha avuto un impatto irreversibile sulla tradizione di innovazione e fantasia della casa: il tentativo del presidente Simon Jeffery (2000-2003) di proporre almeno un equilibrio tra Star Wars e marchi originali naufragò nel peggiore dei modi, e da quel momento, quasi per tutta la decade successiva, abbiamo assistito alla stessa tiritera: presidente s'insedia-presidente cambia la linea editoriale-presidente si licenzia-interregno di incertezze-nuovo presidente s'insedia-nuovo presidente cancella alcuni progetti avviati dal precedente. E via così. Cosa più drammatica, in questi dieci anni molti membri del team sono rimasti gli stessi, sballottolati e confusi! Abbiamo potuto sfiorarli brevemente solo quando il presidente Darrell Rodriguez (2008-2010), riprendendo i contatti diretti coi fan che Jeffery aveva un tempo imbastito, ci ha fatto comunicare con i creativi lì presenti, che ora ci salutano mesti. Le parole di quell'addìo sono scritte da Jesse Harlin, che ci aveva dimostrato di sapere bene cosa fosse la LucasArts di un tempo, musicando Lucidity e le Special Edition di Monkey 1 e Monkey 2, diretti da Craig Derrick, fotografato anche lui nella galleria (è il secondo).
Mi sarebbe piaciuto conoscerli così come conosco il team della Double Fine grazie alla trasparenza che Schafer ha voluto, ma lo spirito indie, che pure era alla base della casa da noi amata, alla Lucasfilm (da cui la LucasArts dipendeva) proprio non andava più giù. Un errore che ha incancrenito il processo creativo. Leggendo questo pezzo si potrebbe pensare che io abbia qualcosa contro Star Wars in sé: assolutamente no. Quanto però della riuscita di gioielli come Star Wars Dark Forces dipendeva dal respirare un'aria che produceva allo stesso tempo anche Full Throttle e The Dig? In dieci anni la LucasArts è diventata il rubinetto di marketing starwarsiano della Lucasfilm: ogni presidente che abbia provato a cambiare le cose è fuggito prima o poi a gambe levate. Star Wars si è nutrito solo di Star Wars, e la macchina si è avvitata.

 

 

Gli eroici dipendenti si sono visti consegnati da George Lucas alla Disney svuotati di necessità, prigionieri di un marchio non in semplice licenza (quella prima o poi scade), ma addirittura identificato con la casa. Lucas e i directors della Lucasfilm erano abituati a tutto questo, per tradizione la LucasArts non l'avrebbero mai chiusa. Una sospensione tra affetto e lucro, incomprensibile ai nuovi proprietari, che non potendo provare affetto (non avendo creato tali aziende) hanno puntato razionalmente sul lucro puro e semplice senza rischi economici. "Perché dobbiamo pagare noi per usare un nostro marchio (Star Wars) che incassa in automatico? Che ci paghi chi il gioco lo vuole fare." Atteggiamento terrificante ma legittimato dalla collocazione commerciale della compagnia al momento dell'acquisizione. Non a caso quell'immagine amara di cui sopra, per far funzionare la metafora, deve appellarsi a un gioco del Natale del 1991, perché - inutile prenderci in giro - Starkiller contro Topolino non farebbe lo stesso effetto. Eppure la LucasArts smantellata dalla Disney era proprio quest'ultima: costosa ma non indispensabile. Non è una constatazione cinica, è una presa d'atto dolorosa.

Ma bando alle malinconie, e ragioniamo su quello che ci aspetta. Non credo che la Lucasfilm disneyzzata abbia piani per i vecchi marchi avventurieri, almeno per ora. La Disney voleva comprare Star Wars, e solo per questo si è dovuta accollare tutto il pacchetto composto dalla Lucasfilm e dalle sussidiarie. Questo disinteresse potrebbe avere, per Monkey Island, Maniac Mansion e gli altri, diverse conseguenze. Teniamo presente che la LucasArts non è stata chiusa del tutto: non pubblicherà né realizzerà più giochi, bensì rimarrà aperta come ufficio di gestione e supervisione di licenze a terze parti. Più o meno ciò che aveva fatto per Tales of Monkey Island (sviluppato e pubblicato dai Telltale) e il recente MMORPG Star Wars The Old Republic (sviluppato dai BioWare e pubblicato dall'Electronic Arts). Pensiamo a qualche scenario.

 

 

Ricorrere al crowd-funding di Kickstarter per aiutare i designer storici a recuperare le loro creazioni non è per ora un'opzione: innanzitutto bisogna capire se Disney ha intenzione di venderle, e in quel caso per quale cifra. Dopo si presenterebbe comunque un problema: non si può aprire un Kickstarter senza un progetto definito. "Dare i soldi a Ron Gilbert per riacquistare Monkey Island" equivale a regalare qualche milione di dollari a Ron Gilbert per un suo tornaconto personale. Lui sarebbe in buona fede, ma non penso che Kickstarter lo consenta (giustamente). Chiedere poi soldi per i diritti e contemporaneamente per un gioco sarebbe un azzardo, significherebbe proporre una cifra (lucas)delirante. Irrealistico, per giunta avendo a che fare con designer che (vedi sopra) sinceramente non mi sembrano davvero motivati a proseguire le loro creazioni, ciascuno per ragioni diverse, forse con la sola eccezione di Moriarty, che i seguiti di Loom li aveva pensati sul serio.

 

 

Tale senso di responsabilità va condiviso con il detentore dei diritti, la LucasArts: i supervisori dovrebbero valutare la questione, tenere in conto le modifiche narrative al marchio da parte dei Telltale, impedirle per sicurezza o al contrario accettarle, impegnandosi però in quel caso a imporle agli sviluppatori successivi che chiedessero la licenza di Monkey Island. E questo varrebbe anche per Ron Gilbert (che forse proprio per questo ha dichiarato di sognare i diritti veri e propri, e non una licenza).
Se tali questioni riguardano essenzialmente autori e detentori dei diritti, noi fan dovremmo però anche rispondere a una domanda, per noi stessi. Stando alle recenti dichiarazioni di Connors, s'intuisce che se la pratica Monkey Island fosse riaperta in futuro, lo sarebbe con le modifiche alla giocabilità che il team segue adesso: saremmo pronti a un impatto del genere? Anteporremmo l'affetto per Guybrush alla struttura di gioco che ha generato il suo mondo? Dilemma. Sam & Max si sono dimostrati flessibili a questi esperimenti nella terza stagione, ma sono pur sempre un franchise nato come fumetto, solido a prescindere dalla dimensione interattiva.

Il mio scenario ideale è il terzo, chiedendo alle parti in causa responsabilità, poca fretta, cautela. I seguiti dei vecchi giochi non ce li prescrive il medico, anzi. Nel frattempo non sarebbe male se la neo-LucasArts consentisse la pubblicazione di tutte le vecchie glorie su Good Old Games, Steam e magari tablet iOS, Android, PSN, XLA e Nintendo eShop [sta accadendo sul serio dalla fine del 2014, ndDiduz]. E incrocio le dita per un bell'action-adventure di Indiana Jones ad alto budget che renda giustizia al mito.

Un proposito

Da questo aprile 2013 non possiamo più, in qualità di lucasdeliranti, andare avanti come siamo andati per sette anni. Questo non perché "ormai sia tutto finito", esattamente per la ragione opposta. Nel marzo del 2004 non avevamo prospettive: la LucasArts aveva voltato le spalle a se stessa, i Telltale non esistevano, la Double Fine esisteva ma rischiava di non finire nemmeno Psychonauts, Tiller non aveva ancora iniziato la sua stoica crociata per il punta & clicca old-style.
Nella nebbia dei traumi simbolici, c'è un treno che sta partendo e su cui il fan può pensare di salire. C'è un prezzo da pagare per il biglietto: credere che lo spirito della LucasArts possa vivere al di là dei vecchi designer, degli storici brand, dei gameplay canonizzati, senza per questo smettere di rispettarli o amarli.
La nostalgia è umbratile e garantisce solo il passato. La storia è invulnerabile, e col passato - compresi nel prezzo - offre anche il presente e il futuro.
Un affare.