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Cosa resterà di questo Kickstarter?

by Diduz

È finita. Negli ultimi giorni dell'aprile 2015 Tim Schafer e la sua Double Fine, dopo quasi tre anni dalla loro campagna di raccolta fondi su Kickstarter, hanno consegnato anche la seconda parte dell'avventura classica Broken Age. In questi tre anni qui su Lucasdelirium ho seguito sviluppi e vicissitudini del progetto, oltre che con le news, con un articolo a caldo e un altro a metà del guado; nel calderone ci metterei anche "I nodi al pettine", non legato al fenomeno Kickstarter ma, come sto per spiegarvi, utile al discorso. Come mi sento? Cosa ne penso?

 

 

Com'era partito

La "Double Fine Adventure" proposta era un progetto a basso budget comprendente un videogioco retrò da 300.000 dollari e il documentario che ne avrebbe raccontato la lavorazione, da 100.000. Nel corso dei mesi mi è capitato di leggere ironie su tale documentario, ivi compreso un sardonico "ci sono ombre sui Kickstarter, ma chi se ne frega, tanto c'abbiamo il documentario che ce lo racconta". Sì, c'è il documentario che ce lo racconta. Nel caso della Double Fine Adventure non era affatto un extra, i sostenitori pagavano anche la realizzazione del documentario, quindi crearsi un giudizio globale che bilanci opinioni sul gioco e sul film non sarebbe una scappatoia da fanboy. È assolutamente naturale. Ricordare questo ci aiuta a notare ciò che per molti non è ovvio: l'idea era quella che le riprese seguissero la lavorazione da zero, quindi l'assenza di un progetto chiaro per l'avventura era legata alle intenzioni divulgative dell'operazione.

Disorientamento e utopie

Si è sedimentato un giudizio a mio modesto parere piuttosto falsato sulle intenzioni originali del progetto, influenzato da quell'esito apocalittico di 3.300.000 dollari. Nessuno si aspettava che si potesse giungere a quella cifra. L'idea del Tim furbo che sapeva di fare i milioni regge dopo che quella cifra l'abbiamo letta sul monitor, non avrebbe mai retto prima. Schafer e i suoi si sono trovati a dover moralmente trasformare un esperimento in un vero progetto a medio budget, che con la sua (relativamente) ampia cifra raccolta ha mutato un'attività collaterale in una gigantesca utopistica rivendicazione: il miraggio di un'indipendenza creativa dalle esigenze commerciali di un publisher, incarnata da un progetto che da retrò diventava una sorta di "retrò aggiornato per guardare al futuro", come già cominciò a far intuire Schafer nelle interviste date prima della fine della campagna. Il tutto immerso in una trasparenza totale con i backer.
La paura che serpeggiò in me quando scrissi il primo articolo si è tramutata in una realtà che la Double Fine ha sperimentato sulla sua pelle: i backer non sono immuni dalle reazioni di un pubblico normale, e il fatto che contribuiscano con cifre enormemente inferiori a quelle di un editore non significa che non possano tramutare il disappunto in un'onda anomala. Con l'aggravante di saperne meno di un editore sulle dinamiche produttive specifiche e di rappresentare uno sguardo parcellizzato e a volte contraddittorio. Ricordo un mantra di Ron Gilbert pronunciato in una vecchia intervista di oltre dieci anni fa: "Non fai mai veramente a meno dell'editore, diventi tu l'editore". Qui è stato peggio: siamo diventati tutti l'editore! Avete presente la voce grossa che fa l'editore, quando il budget viene sforato o le promesse contenutistiche non sembrano confermate? Quella l'hanno fatta i backer. Avete presente il timore di un editore nell'emettere gli annunci, tipo quando procrastini strategicamente una rivelazione prima che questa danneggi l'esito di un altro progetto? Quello l'ha mostrato la Double Fine. Vi dirò, ripensandoci ora, forse noi e la Double Fine non potevamo comportarci altrimenti, perché mi sa che c'è un duro rospo da ingoiare: l'editore, come concetto, esiste anche quando pensi di averlo stroncato. Rappresenta un insieme di realtà economiche e comunicative imprescindibili, giudicato come il male dall'opinione media solo basandosi sulla sua deriva, dovuta all'ottusità di dirigenti che spesso ne capiscono poco della materia e capiscono troppo di soldi, in tanti brutti episodi. Ma in sé ha un senso, e i sussulti di questi tre anni ce l'hanno fatto capire. Dubito fosse questa l'intenzione didattica della Double Fine, ma una lezione c'è, diavolo se c'è!

 

 

Il re s'è denudato

"Comunicare il lato umano dello sviluppo dei videogame": quante volte Tim Schafer lo ha detto, in questi tre anni? Con le videocamere dei 2 Player Productions puntate addosso, voleva spiattellarci successi e sconfitte, savoir faire ed errori clamorosi. L'ha detto e l'ha fatto, ma la palla di neve, rotolando per la discesa della rete, è diventata una valanga incontrollabile, in certi casi un boomerang. "Umanità dello sviluppatore" non significa solo simpatia, ma anche antipatia: la sovraesposizione alla quale Schafer naturalmente si presta per carattere, centuplicata dal suo diventare simbolo dell'ideologia libertaria di cui sopra, ripresa da mille camere e moltiplicata in mille siti, si è rivelata un fardello troppo pesante anche per le spalle larghe di un veterano come Tim. Gli ha aperto un mondo non popolato solo dagli "affettuosi" backer, ma anche di gente che sin dall'inizio ha atteso i suoi errori, per dimostrare svariate teorie: è persino affiorato il fronte revisionista del "tanto quello è sempre stato un bluff". Quando scrissi I nodi al pettine parlai dell'effetto "il re è nudo" che è cascato sulle spalle di celebri sviluppatori. Il caso di Schafer e del Kickstarter di Broken Age è però peculiare, perché qui il re stesso ha deciso di denudarsi, sottovalutando cosa comporta mostrarsi ai più come mamma t'ha fatto. Ha sottovalutato anche altre contemporanee problematiche non inerenti Broken Age, ma legate alla stessa difficile trasparenza, come la gestione dei disastri Gamergate e Spacebase DF-9: alla fine vedo uno Schafer a pezzi, stanco morto, che non riesce a ingoiare più nemmeno un attacco. E siamo stanchi anche noi backer che ci siamo sforzati per tre anni di mantenerci oggettivi su quello che accadeva: sballottolati dalla voglia di difendere un team che stimiamo tanto e dalla necessità di ammetterne gli errori. Normalmente, un fan non segue un progetto da zero per tre anni filati: un editore lo annuncia qualche mese prima dell'uscita. E ritorniamo al discorso di cui sopra: forse... non è un errore.

Ma era necessario un Kickstarter?

Era necessario un finanziamento dei fan per dare alla luce un progetto della portata di Broken Age? Sì. Non solo perché il modus operandi della Double Fine, la ricerca del quid del progetto con tempi dilatati, spaventa un normale finanziatore. I fan erano necessari perché la follia di un racconto come quello di Broken Age prende più facilmente vita se viene abbracciata senza pensare troppo al marketing: ciò è confermato dal fatto che persino molti backer faticano ora a "entrare" nel gioco finito, trovandolo poco coinvolgente o sentendosene respinti a pelle.
Era necessario anche perché, per 300.000 dollari, la Double Fine avrebbe al massimo - come Tim ha confermato - realizzato una cosa tipo Thimbleweed Park (senza gli stretch goal): Tim stesso alla scrittura, un programmatore, un grafico, niente doppiaggio, un motore preconfezionato e solo i porting previsti da quest'ultimo. La speranza di molti era invece che un grande successo di un gioco più corposo avrebbe potuto dimostrare che c'è un mercato per le avventure nel giro di una produzione con stipendi da "tripla A". Non c'è. In questo senso non ha funzionato: la realizzazione di Broken Age è stata troppo costosa, in proporzione al successo di vendite e al seguito che il gioco sta avendo, anche tralasciandone il discorso sulla sua qualità intrinseca. E in termini di popolarità nel mercato di massa, nemmeno altri Kickstarter di avventure grafiche, venuti dopo quello di Tim, sono riusciti nell'impresa. Eppure i vip al doppiaggio, la colonna sonora eseguita da un'orchestra, non sono stati uno spreco: bisognava provarci, quei tre milioni e rotti l'imponevano.

Ma poi alla fine chi se ne frega?

Riportare alla gloria le avventure grafiche... come scrissi a caldo nel primo articolo, era un'idea che suonava un po' ingiusta, perché le avventure di case come la Daedalic e la Wadjet Eye Games esistevano prima ed esistono ancora, per non parlare del passato sottovalutatissimo dei Telltale. Forse sarebbe il momento, una buona volta, di alzarci da questo perenne capezzale. Di solito gli avventurieri sono prontissimi a scagliarsi contro chi dà le avventure per morte, salvo poi sognare "una seconda gloria", indirettamente confermando il coma. Si producevano e si producono tantissimi titoli del genere, con tutti gli approcci, specialmente da quando esiste il digital delivery. È vero, i siti generalisti non li seguono con attenzione, ma a un certo punto chi se ne frega? L'idea della nicchia comincia a lasciare il tempo che trova: per capirci, sarebbe come se un appassionato del cinema indipendente americano sognasse per il suo amato film l'incasso di Avengers, per poter girare il prossimo film intimista con un budget di 250 milioni. È stato detto più volte: il "problema" delle avventure non è l'incassare meno rispetto all'epoca d'oro, ma vendere grossomodo lo stesso numero di copie in un'epoca in cui i costi e il pubblico si sono allargati a dismisura. Come diceva Noah Falstein, adesso però rispetto ad allora, grazie al moltiplicarsi dei canali, c'è veramente posto per tutti, quindi combattiamo su un terreno diverso.

 

 

La mancanza di professionalità e l'espiazione

Serpeggia il concetto secondo cui Broken Age sia stato gestito senza professionalità, per via dell'uso troppo lasso del budget e l'obbligata suddivisione in due parti. Io non ce la faccio a essere d'accordo con questa sentenza. Attenzione: l'azzardo c'è stato, ma toccare il tasto della professionalità mi pare eccessivo. A parte alcuni mestieri delicatissimi con spazio di manovra nullo, come il chirurgo o il tecnico di una centrale nucleare, la creatività è uno di quegli ambiti professionali in cui le scivolate si possono tollerare. Anche per esperienza personale, in questi contesti la professionalità non consiste tanto nel non commettere mai errori, quanto nel trovare una strategia per correre ai ripari prendendosi la propria responsabilità. Decidendo di autofinanziarsi la seconda parte, la Double Fine ha pagato nella maniera più concreta: di tasca propria e riducendo di molto (correndo il rischio di annullarlo) il guadagno sul proprio lavoro. Più di così... devo anche infierire? Il mio portafogli di backer non è stato più interpellato da quel lontano marzo del 2012, e per i miei 100 dollari ho avuto un gioco intero, un documentario professionale, una maglietta bellissima, un poster e una scatola per lo scaffale. Riguardo alla questione dei costi, infinita è la riconoscenza che devo a Schafer e al fenomeno Kickstarter per avermi fatto capire tante cose. Non c'è occasione migliore per stilare un rapido elenco dettagliato sull'uso del budget, tanto per fugare un altro dei tormentoni, quello dell'imboscamento dei soldi.

Budget di partenza - fonte: il producer Greg Rice sul forum ufficiale (aprile 2012)

Ripartizione budget (fonte: tweet di Tim Schafer sparpagliati negli anni)

Al momento non disponiamo di dati sull'atto II: fermo restando che c'interessano relativamente, non riguardando più soldi nostri, a occhio direi che è costato molto meno, perché avrà richiesto un impegno interno inferiore, riciclando o modificando gran parte degli asset preesistenti, con poche lavorazioni da zero.

 

 

Ma Ron ci salverà

Se Tim è cuore a corpo morto, Ron Gilbert è cuore raziocinante: s'è dato alla macchia prima di essere travolto dalla deflagrazione. Da quello che ho visto nei documentari, per quanto Ron fosse alla Double Fine per The Cave, Tim sperava che estendesse il periodo per dire la sua. Manco per il cavolo: "Il progetto era carico di aspettative con cui sono stato lieto di non avere a che fare", ha detto Gilbert qualche mese fa. Ora i fan delusi da Broken Age si sono trasferiti su Thimbleweed Park, possibilmente nei commenti parlando male di Schafer. Non mi piace. Ho un deja vu: quando Schafer annunciò il Kickstarter, una piccola fronda anti-Telltale lasciò il loro sito, indicando nella Double Fine il nuovo Messia dell'avventura grafica. Ironicamente, sparita la fronda oltranzista dall'orizzonte dei Telltale, la casa è esplosa con le sue Telltale Stories. Non c'è che da augurarsi che l'indignazione porti la stessa fortuna alla Double Fine!
Scusate, sono ironico, non prendetevela. È solo che in questi tre anni gli stati di guerra perenni m'hanno stancato. Il Kickstarter di Thimbleweed Park è stato perfetto, ma la sua perfezione viene dall'aver fatto tesoro dell'esperimento di Tim, e Ron lo sa: "Broken Age è venuto benissimo, fare giochi è difficile, è dura essere i primi". È un po' come essere in guerra, trovarsi in prima linea, fuggire nelle retrovie, lasciare che gli altri sfianchino il nemico, per poi colpire con la strategia giusta e le schiere avverse indebolite. Tra l'altro, il prossimo gioco di Ron e Gary Winnick si chiama fuori sia dal futuro delle avventure sia dall'approccio semimodernista di Broken Age: è un'intima piccola nostalgia condivisa con gli utenti, con aggiornamenti frequenti ma - si noti bene - gestiti direttamente da Ron, non affidati all'oggettività spietata della Double Fine Adventure.

L'onore delle armi

È facile oggi fare i cinici e dire che la bolla di Kickstarter, l'utopia e il sogno di quell'aprile del 2012 siano morti. Eppure, c'è una realtà incontrovertibile: dopo la Double Fine Adventure, il crowdfunding è diventato un legittimo canale regolare per cercare (non ottenere in automatico!) i finanziamenti per titoli e progetti videoludici a basso-medio budget. I fan delle avventure potranno essere delusi (l'avete provato o no Tesla Effect?), ma appassionati di altri generi, soprattutto gdr, sembrano al settimo cielo. E lo devono a Tim "Vulcano" Schafer, c'è poco da fare. Parlare di rivoluzione fu prematuro, per la gioia di noi razionali, ma sul campo di battaglia è rimasta una pagina di storia dei videogiochi. Scritta, senza nemmeno immaginare di farlo, da un autore che credeva semplicemente nella sua voglia di condividere il lavoro che ama, con chi volesse prendersi la responsabilità diretta di sostenerlo.
Il gioco "non è un capolavoro"(TM), tutto questo sì.