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Quindici

(14/10/2000-14/10/2015)

by Diduz

Ok, ora sono veramente tanti. Dopo cinque anni, ti senti fiero di aver portato avanti un progetto che ha assunto una sua forma. Dopo dieci anni, ti guardi indietro e gusti il traguardo, la celebrazione, l'idea di aver traghettato te stesso, gli autori che segui e chi ti legge in un'epoca diversa. Dopo quindici anni hai l'obbligo di domandarti perché continui. Nell'articolo sul decennale parlai di evoluzione, pensando a me ventitreenne trasformato nel trentatreenne che ero. Cinque anni dopo il ragionamento potrebbe essere analogo, persino più leggero: in fondo gli anni intercorsi sono solo cinque. Eppure sfiorare adesso la quarantina non è la stessa cosa: fino ai 33-34 anni, battute sceme a parte, sotto sotto provavo ancora quel senso di invulnerabilità ed eterna potenzialità di un ragazzo. In salute, quantità di capelli e prospettive, adesso inizio a vedere un restringimento dell'orizzonte. Non proprio la "vecchiaia", nessuna tragedia, ma una via di mezzo, un innegabile giro di boa in atto. La tentazione più grande in questi casi è aiutarsi con la camera stagna: siccome ci vuole forza per affrontare sfide diverse, allora si dà un colpo di spugna al passato e a ciò che ce lo ricorda. Si chiude ciò che è stato nella nostalgia e si dice: "Ora basta, sono cresciuto." Si dirotta la curiosità verso nuovi lidi, si cristallizza un'esperienza e la si chiude in una teca. Come un baluardo di sicurezze insindacabili, benedette dall'infanzia e dall'adolescenza, aproblematiche, lo Zak caricato sul C64. C'ho pensato, quando ti prende la stanchezza è una soluzione comprovata, a portata di mano, rodata. Non ci riesco.

Come accadeva cinque anni fa, mi pagano ancora per scrivere, mi sono anche ritrovato l'anno scorso pubblicista. Fossi scivolato in un'altra carriera, mi sarebbe forse stata più facile la suddivisione della mia vita in simboliche camere stagne. Ormai scrivere Lucasdelirium mi viene naturale, parte di quell'attenzione che riservo all'audiovisivo da quando ho raggiunto l'età della ragione. Ho recentemente scritto un librone sui cartoon Disney con lo stesso spirito di attenzione a una tradizione che si evolve. E la magia dell'evoluzione non ha proprio nulla a che vedere con la chiusura e l'apertura di capitoli incomunicanti. Non ci sono Monkey Island da una parte e The Cave dall'altra; non ci sono un ragazzino che scopre la vita in una città e un uomo che se la costruisce da tutt'altra parte. C'è una ricerca creativa che si muove e avanza, in parallelo a un tizio che muta insieme a lei e che ci riflette, raccontandovela.

Ogni volta che penso "Ok, non posso continuare ad analizzare ancora giochi, sono stanco", qualcosa mi blocca. È una voce che mi ricorda una verità: chi sta sotto o poco sopra i quaranta costituisce la prima generazione che ha seguito i videogiochi quasi dagli albori. Siamo la prima generazione che sta invecchiando con i videogiochi, quindi il modo in cui decideremo di porci davanti a essi adesso è di fondamentale importanza per il mezzo stesso: se gettiamo la spugna per il lavoro, per la famiglia, per la necessità di contenuti più all'altezza delle nostre menti ormai adulte, allora perderemo un treno speciale, che è tutto nostro.

Lavoriamo e chi amiamo ci aspetta a casa, ci vuole per sé? Cerchiamo allora esperienze più brevi, più intense e magari condivisibili, troviamo il modo di coinvolgere senza sembrare troppo nerd. Siamo abbastanza vecchi per non realizzare che un film o un romanzo ci regalano più riflessione di un videogioco? Cerchiamo allora videogiochi che si sforzino di andare in quella direzione, nei contenuti o anche solo nella consapevolezza del mezzo, mai data per scontata. Davvero, è importante. Perché se a questo punto ammettiamo che i videogiochi sono solo un ricordo d'infanzia e non i compagni di una vita, allora non potremo lamentarci se l'opinione pubblica li avverte ancora come giocattoli. Siamo un anello prezioso di una catena storiografica: se si spezza, se spariamo, i videogiochi cresceranno senza passato, ogni moda cancellerà le radici precedenti. Nessun'arte funziona così!

Lucasdelirium cercherà di resistere alle tentazioni: non so cosa la vita mi riserverà e se sarò costretto a mollare il sito, al di là di questi risibili buoni propositi, ma se ciò accadrà mi piacerebbe lasciarlo a qualcuno, non chiuderlo con mestizia. Si respira troppa vitalità, troppo fermento. Perché il crowdfunding portato sotto i riflettori dalla Double Fine tre anni fa ci ha aperto un mondo di complicità e comprensione degli autori e del mezzo, prima impensabile. Perché i Telltale ci fanno giocherellare ogni mese con le opinioni morali che abbiamo sui nostri protagonisti (ed è una cosa da adulti, non ci pensavamo nemmeno da ragazzini, né a quell'età mi avrebbe fatto tanto effetto). Perché Ron Gilbert sta rivisitando il proprio e nostro passato con Thimbleweed Park, per la prima volta a testa bassa, in modo totalizzante, non con i soliti ammiccamenti di marketing limitati al palliativo della citazione.
Tutto questo è qualcosa di diverso dall'ingenuità di Maniac Mansion e Monkey Island, quando un autore poco più che ventenne scopriva le potenzialità di un mezzo e intercettò le nostre vite nella scuola dell'obbligo, tra una cotta, un'interrogazione e un cazzeggio. La posta in gioco si è fatta più alta, la coscienza di se stessi e della propria sensibilità si è amplificata, per noi e per gli autori che seguiamo. Guardare avanti non è sputare sul passato, ma dargli il senso che merita: come eravamo ormai l'abbiamo capito, ora si tratta di capire come siamo.