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Le riviste sui videogiochi
non servono più?

by Diduz

- Nuova versione: giugno 2025 -
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La scoperta
Fino al 1989 non avevo mai acquistato o consultato riviste di videogiochi con regolarità. Avevo 12 anni e per me i giochi per il Commodore 64 andavano scoperti "consultando" le vagonate di floppy disk piratati o le cassette vendute in edicola (pirata anch'esse, ma non lo sapevamo), caricando ogni titolo e cercando di capire come funzionasse. Realizzai cosa potesse significare leggere una rivista di quel tipo, per informazione e appartenenza culturale, a cavallo del mio passaggio dagli 8 ai 16 bit, dal C64 all'Amiga. Per questa ragione non ho vissuto al momento l'epoca di Zzap! (1986-1993), baluardo dell'editoria videoludica italiana dedicato agli 8bit, ancora oggi ricordato con estremo affetto da chi era leggermente più vecchio di me. Iniziai a capire come fossero impostate quelle riviste quando a casa di un amico lessi alcuni numeri di K e The Games Machine, anche se tra la primavera e l'estate del 1990 di mio acquistai Guida Videogiochi (1989-1990), un tascabile dell'Editoriale Jackson pieno zeppo di recensioni, molte tradotte e adattate su licenza dalla Francia; il tascabile si sarebbe poi evoluto, dal 1991 al 1995, in Computer+Videogiochi, pubblicazione che non hai mai impensierito i due colossi citati e francamente non mi ha mai conquistato.

I due baluardi, la mia terza via
The Games Machine nacque nel settembre del 1988, riproponendo testi tradotti su licenza della sua omonima inglese, che però chiuse anzitempo nel 1990, accelerando l'emancipazione dei redattori italiani. K nacque poco dopo nel dicembre del 1988, gestita dal mitologico gruppo dello Studio Vit, che adattò e tradusse i testi dell'inglese ACE fino al 1992, per poi viaggiare sulle sue gambe. È un concetto difficile da esprimere nell'epoca di internet malata di fazionismo, ma K e The Games Machine erano complementari.
A pieno regime, The Games Machine presentava una grafica coloratissima e molto varia, con testi scritti in preda alla goliardìa più sfrenata, intrisi di un lore redazionale demenziale e disinibito: era immediata, allegra, di entusiasmo contagioso. K era ordinato, pulito, caratteri neri su sfondo bianco, con testi più precisi, più controllati e approccio in generale più serio, più irreggimentato, non umoristico. Quando uscivano giochi che attendevo, potevo prendere anche entrambe nello stesso mese, altrimenti ci si alternava con un amico. Getto la maschera (si fa per dire, perché qualcuno conoscendomi l'avrà già intuito): io caratterialmente propendevo per K. Il trauma avvenne quando, dopo il dicembre del 1994, la Glènat non si riaccordò con lo Studio Vit per la concessione dei "servizi editoriali" di K, che dal 1995 passò alla gestione Edi Progress, cessando per me di esistere (le sue pubblicazioni reali invece terminarono nel settembre del 2003).

Per mia fortuna, lo Studio Vit orfano di K diede vita nel febbraio del 1995 a Zeta. Tra me e l' "ultima parola sul divertimento interattivo" fu amore a prima vista. A oggi devo ammettere che, se mi chiedessero quale sia stata la rivista alla quale sia stato più affezionato, dovrei fare senz'altro il nome di Zeta, il reale prosieguo dello spirito di K. Zeta sopravvisse a un'acquisizione dell'editore Il Mio Castello, che per cinque micidiali numeri tra il '96 e il '97 la trasformò da brossurata a spillata, prima che lo Studio Vit la riacquistasse a metà del '97.

Il Mio Castello riuscì comunque a dar vita contemporaneamente a Giochi per il mio computer, realizzato da una costola dello Studio Vit fino al settembre del 2012, anno della sua morte. Zeta andò avanti, stentando sempre di più via via, cambiando anche nome nell'inelegante PC Zeta, fino a quando non sventolò l'amara bandiera bianca nel marzo del 2001. Riposti e custoditi gelosamente in libreria il primo e l'ultimo numero dell'unica rivista di cui avessi acquistato tutte le uscite, a me non rimaneva che guardarmi intorno e decidere cosa fare.

I legami, le necessità
Negli anni ho avuto la soddisfazione di vedere alcune mie lettere o segnalazioni pubblicate su Zeta e The Games Machine. Su quest'ultimo ricordo la scoperta, finita nelle voci di corridoio (mi pare curate da Claudio Todeschini), della source port che permetteva di giocare Doom in split-screen sullo stesso PC, e ricordo anche una lunga lettera a Massimo "Xam" Svanoni, pubblicata nella sezione TGM Mail, nella quale chiedevo a gran voce trame e sceneggiature migliori per i videogiochi. Negli ultimi anni di Zeta, ricordo invece un mio legame affettuoso prima con Simone Soletta, che manteneva una rubrica sulle avventure grafiche, e ben due mie lettere nella sezione che Ugo Laviano, poi designer in Ubisoft Milan, dedicava alle console: ero da poco proprietario di un Gameboy Color. Addirittura ebbi l'onore di collaborare con lo Studio Vit nella breve esperienza di Kataweb Videogiochi tra il 2001 e il 2002, con una manciata di recensioni che rimangono il primo impiego retribuito della mia vita: durò poco, perché anche la gloriosa esperienza dello Studio Vit volse al termine.
Nei primi anni Duemila, orfano di Zeta e ormai trapiantato in un'altra città, scelsi per diverso tempo di appoggiarmi su Giochi per il mio computer. Probabilmente mi inteneriva la firma del capo-redattore ex-Studio Vit Paolo Paglianti, ma la verità è che sentivo il bisogno di non staccare da quello che succedeva nell'ambiente: Lucasdelirium era aperto da poco e mi trovavo in un monolocale nel quale non avevo una connessione a internet, facendo affidamento su uno scalcinato internet point. È stato anche il periodo in cui ho tagliato i ponti con The Games Machine, ma semplicemente perché l'utile "edizione budget" di GMC era più economica. Quando cambiai casa, riottenuta la connessione costante alla rete intorno ai primi mesi del 2005, ho praticamente smesso per sei anni di acquistare riviste di videogiochi, se non saltuariamente quando mi andava di verificare come stessero giudicando i titoli che trattavo su Lucasdelirium.

Mi svegliò piacevolmente, seppure per poco, un'esperienza che non dimenticherò mai, avvenuta per l'intercessione degli amici di Adventure's Planet, cioè la partecipazione nei primi del 2008 allo Speciale Avventure Grafiche organizzato proprio da The Games Machine, con l'articolo Scumm e dintorni, primo e finora unico mio pezzo mai pubblicato da terzi su carta; i miei referenti furono il citato Xam (che ha poi lasciato la rivista) e Paolo "Paolone" Besser. Per un attimo mi venne da pensare che quel tipo di pubblicazione fosse più concorrenziale con la rete, rispetto alla normale rivista mensile.

Fondamentalmente, come tanti, non avvertivo infatti più il "bisogno" di comprare riviste. Perché "tanto c'era internet". Già.

Autoprescrizioni
Verso la metà del 2011, responsabilizzato sul fronte della scrittura, avviandomi a diventare pubblicista (passo compiuto nel 2014), ho realizzato qualcosa di terrificante. Leggere gratis su internet riduce la mia apertura mentale. La consultazione interattiva mi spinge naturalmente a cliccare e analizzare solo quello che già mi interessa, ma lascio che tutti gli altri link scorrano via. Non mi vale solo per l'editoria videoludica, mi accade anche con l'informazione in generale. Lo trovo un amaro paradosso: potenzialmente la quantità di dati e notizie che internet mi offre supera di gran lunga qualsiasi pubblicazione cartacea, e internet non ha rivali in una ricerca condotta con spirito critico, ma in proporzione sono più spinto a sottopormi all'ignoto se pago e/o sfoglio "passivamente" una selezione di informazioni, stampate o dietro paywall. In altre parole, se voglio davvero sapere cosa succede in giro, al di là di quello che attira naturalmente la mia attenzione, mi fa piacere una proposta organizzata. È la necessità di una selezione per interposta persona, cosa che poi d'istinto faccio anche qui sul sito: non lo aggiorno forse una volta al mese, come se fosse una rivista?

A questo proposito, dal 2011 ho ricominciato ad acquistare riviste sui videogiochi, preoccupato di non sostenere Lucasdelirium con uno sguardo d'insieme che inglobasse il passato ma non vi si appiattisse. I siti disperdevano la mia attenzione. Fino al 2014, anno della sua chiusura, ho seguito in quest'ottica Game Republic, per un aggiornamento panoramico multipiattaforma, che GMC e TGM non garantivano.
Il ritorno su The Games Machine non è stato immediato.

Poco meno di un anno dopo mi si è riaccesa la scintilla con la recensione di Paolo Besser di Broken Age: non ero d'accordo con il suo giudizio trionfalistico, eppure rileggere una firma storica su un titolo nuovo mi ha suscitato uno strano effetto. Al di là della nostalgia, leggendo diversi numeri ho scoperto una rivista molto diversa da come la ricordavo. Sempre allegra, sempre in grado di trasmettere il tradizionale spirito di corpo, ma più rigorosa nel concepimento dei testi, meno demenziale, più "studiovittiana" (adesso lo posso scrivere senza che suoni come una provocazione).

Continuava nominalmente a non essere multipiattaforma, ma il sito ufficiale lo è, senza contare che una fetta preponderante del mercato stesso negli ultimi dieci anni lo è diventato. Mi sono persino abbonato... e lo sono rimasto.

La tenacia
The Games Machine è la più longeva rivista di videogiochi occidentale, avendo ormai battuto anche la spagnola Micromanía (1985-2024), costituita peraltro da tre incarnazioni sensibilmente differenti e con diversa numerazione. In termini assoluti, TGM nel mondo è sconfitta soltanto dalla giapponese Famitsū, fondata nel 1986 e intoccabile con le sue centinaia di migliaia di copie di tiratura settimanale (!!!). Con oltre trentacinque anni sul groppone, TGM ha visto cinque editori (Edizioni Hobby, Xenia, Future Italy, Sprea, Aktia), attraversando diverse epoche dell'intrattenimento interattivo. Ciò non significa che non abbia risentito del passare del tempo: leggo che nel 2011 la sua tiratura era di 50.000 copie, nel 2014 di 25.000. Oggi... si cerca una quadra per la sopravvivenza. Nel giugno del 2025 il prezzo di copertina è salito, aumentando la qualità della carta e tornando alla brossura, nell'ottica di un prodotto "premium" che punta soprattutto sugli abbonamenti. Quella di TGM è ormai una battaglia di resilienza e di principio, condivisa nel mondo con le britanniche EDGE e PC Gamer (entrambe classe 1993) e l'americana Game Informer (classe 1991, deceduta nel 2024 ma risorta con i fondi Gunzilla Games). Il resto è ormai storia di un passato remoto, preservato da associazioni benemerite come Retro Edicola, Video Game History Foundation, Oldgamesitalia o lo stesso Archive.org (in questa pagina ci sono link che rimandano proprio lì).
Ma quali possono essere le ragioni specifiche di queste difficoltà, tralasciando le conseguenze della generale crisi dell'editoria periodica, ridotta al lumicino dalla rete, mentre le edicole sono in via di estinzione?

L'avvocato del diavolo
Premettiamo che in questa sede parliamo specificamente di riviste dedicate a videogiochi contemporanei per macchine altrettanto contemporanee. Il fenomeno del retrogaming / retrocomputing, per quanto ospitato in rubriche anche in TGM, sulle sue gambe dimostra una certà vitalità, aiutata dal collezionismo non meno che dall'informazione: l'ottimo Retro Computer di Sprea arriva in edicola bimestralmente (speciali esclusi!) ed è nato da poco, mentre solo per spedizioni dirette esistono realtà come Passione Amiga o l'imminente Retro Player (filiazione di un Primo Player generalista, faticosamente sopravvissuto per 18 numeri e ispirato alle riviste della "seconda generazione" come il citato Game Republic).
Quali sono però i limiti con i quali si scontra oggi una proposta editoriale cartacea "sul pezzo"?

  1. Non può più fisiologicamente garantire la tempestività delle notizie, né la copertura completa dei titoli e degli argomenti discussi o sviscerati in rete. In parole povere e più flessibili: non può più esaurire il discorso. Già nell'epoca d'oro pre-digital-delivery qualcosa rimaneva fuori, ma erano avanzi. Oggi non è più così. In un contesto in cui, per ragioni economiche, la foliazione deve contenersi e il numero di collaboratori non può aumentare esponenzialmente, dove l'indie è un mare vasto che sfida le produzioni tripla-A, un senso all'esistenza va cercato altrove. Leggere per me adesso un prodotto del genere non significa smettere di consultare al volo i siti dedicati o qualche canale di YouTube, specialmente quelli iperspecializzati su ciò che mi interessa, come le avventure grafiche: realtà come Adventure Game Hotspot e Calavera Cafè batteranno ormai sempre una rivista generalista. Do valore a una proposta unitaria, dalla forte identità, che mi apre la mente, ma in tutta franchezza non mi baserei mai, per l'acquisto di un gioco, su una sola recensione o - argh - un solo voto. Ormai compro videogiochi basandomi, in percentuali variabili, sulle intenzioni che mi sembra d'intuire, sui giudizi di più fonti, sulle discussioni che suscitano, su qualche video, sul mio legame col genere o con gli autori, sulla curiosità di pancia. Lo stesso recarsi sui negozi virtuali di Steam o Good Old Games intreccia la vetrina con i giudizi degli utenti e della critica globale. Tutto ciò ipotizzando per assurdo che i videogiochi mi interessino solo in funzione del mio eventuale acquisto. Riduttivo, ormai. Se un tempo K o The Games Machine erano la nostra unica finestra su un mondo che non era raccontato altrove, credere ancora in quella funzione assoluta e necessaria sarebbe una romantica illusione.
  2. Un limite più leggero, estetico: troppi screenshot dei giochi attuali, se non quelli in pixel art o meno dettagliati, sulla carta stampata risultano poco chiari, microscopici. Non rendono affatto l'idea del titolo, né dal punto di vista estetico, né da quello del gameplay. L'impostazione antica calza male sulla tecnologia contemporanea: la grafica attuale è troppo ricca per quegli spazi così ristretti sulle pagine! Come ho scritto nel punto precedente, dando per scontato che chi compra s'imbatterà anche in altro materiale su schermo, ben ingrandito o magari pure in movimento, sarebbe forse più elegante proporre dettagli selezionati delle schermate, evocativi, più che inseguire disperatamente un'utilità pratica che non possono avere (anche nel ben accetto miglioramento di carta e stampa operato di recente da TGM).

A sostegno di questi due punti, segnalo per contrasto il felice caso del recupero dal 2021 di Zzap!, ad opera di una gang eterogenea di vecchi e nuovi adepti, condotta eroicamente da Paolo Besser, carburati solo da un rimborso spese: l'associazione Airons di Vigevano (riconoscete l'eco di Bovabyte?) spedisce a cadenza più o meno trimestrale ai suoi circa 300 soci un magazine sull'odierno "retrodeveloping" per macchine storiche a 8 e 16 bit, cioè giochi nuovi per sistemi vintage (C64, Spectrum, Atari 8bit, MSX, Amstrad, Amiga, Megadrive, NES etc.).

In questo caso l'impianto antico funziona ancora perfettamente: il ritmo delle uscite e l'attività della scena sono compatibili con un monitoraggio umano dei titoli più significativi, mentre quel dettaglio grafico vintage si adatta da sempre molto bene alla stampa. Anzi, la riapparizione della rivista completa il fenomeno del retrodeveloping, perché Zzap! condivide con quelle macchine le radici di quell'immaginario. Lo scarto può emergere invece tra un impianto antico della proposta e appunto il mondo videoludico contemporaneo.

Non che The Games Machine non avesse provato ad aggiornarsi, con un curioso tentativo operato a metà 2017, le "Playlist": l'idea era rendere la rivista complementare al sito, dove avrebbe trovato posto la copertura più classica con news e recensioni, mentre sulla carta stampata ci sarebbero stati approfondimenti di vario tenore, suggeriti dai titoli in uscita. Un cambio di rotta coraggioso, seppur forse troppo rigido e non adatto a ogni titolo (cosa può ispirarti l'ennesimo aggiornamento di una saga sportiva?): soprattutto, fu respinto dalla fanbase storica, legata all'impostazione tradizionale. Un anno dopo la rivista ha fatto dietro front, perdendo anche una buona parte della redazione, sostituita da uno staff all'altezza di un reboot più tradizionale, col sostegno dell'editore Oscar Maeran (Aktia) e di Mario Baccigalupi, promosso capo-redattore eroico.

In realtà, lo dico come considerazione personale, una proposta che costruisca ragionamenti in modo libero a partire dai giochi, senza legarsi strettamente all'attualità e alle logiche delle rubriche classiche, abbattendo le barriere tra retrò e contemporaneo, potrebbe essere interessante: certo, c'è la costruzione scopertamente intellettuale del progetto Ludenz di Gianclaudio Pontecchiani e Luigi Marrone, ma mi sarebbe piaciuto leggerla anche in una chiave più... mainstream. Servirebbe però una realtà studiata appositamente per farlo, col senno di poi The Games Machine aveva un problema proprio nella sua anzianità di servizio.

Tralasciando per un attimo le diverse tirature, una rivista sopravvissuta come The Games Machine scivola un po' nella sindrome di Tex e Diabolik, in misura minore della Settimana Enigmistica, vivificata dalle vendite vacanziere. A un certo punto una certa stasi (estetica e nel registro dei contenuti) diventa valore per un pubblico con un ricambio generazionale basso o nullo: il prodotto d'ingegno diventa monumento in teca antiproiettile, quercia secolare, casolare protetto da vincolo paesaggistico, con restauri da eseguire con mano tremante. The Games Machine affronta però una sfida in più: è giornalismo d'attualità, a differenza degli esempi citati, che si possono permettere di tenere il mondo che ci circonda alla distanza che più loro aggrada.

"Ma a che serve?"
Ho l'ardire di pensare che, oltre alla crisi generale della stampa periodica, il tramonto delle riviste videoludiche sia dovuto proprio ad aver procrastinato una difficile risposta alla fatidica domanda: "Ma a che serve?" È una domanda identitaria potente, nodale, di quelle che fanno paura. Di quelle alle quali, se non trovi tu una risposta, sarà il pubblico a darla: "Non mi serve spendere per una rivista quando c'ho tutto gratis su internet!" Gli addetti ai lavori sono riusciti a procrastinare una loro risposta, dalla seconda metà degli anni Novanta e l'avvento di internet, con l'escamotage degli allegati: prima cd/dvd stracolmi di demo che un'Italia a 56k non riusciva a scaricare, poi alzando il tiro con i giochi completi allegati. Fu una battaglia spietata e costosa, combattuta principalmente tra TGM e GMC, con terzi incomodi inseguitori come Zeta, che cercò di stare al passo, poi stampò un urlo disperato sulla copertina dell'ultima uscita: "Basta! Nessun gioco in allegato!" Ironia amara: quanto spesso avete letto in quegli anni sui forum "Tanto ormai le riviste le compro solo per il gioco allegato?" Con l'avvento dell'ADSL e dei saldi di Steam, e più in generale del digital-delivery, la ciambella di salvataggio si è sgonfiata (TGM ha dismesso i dischi allegati nel 2011). E riecco lì la domanda, evitata, che si ripresenta minacciosa: "A che serve?" Io mi sono dato la risposta soggettiva che ho già esposto: mi fornisce la selezione che mi apre la mente. C'è però un principio oggettivo al quale ci si possa appellare, nell'era della virtualità?

Uno sporco lavoro che qualcuno pur continua a fare
La selezione di cui parlavo ha vita difficile nella logica dell'informazione "gratis", che porta allo strapotere della Search Engine Optimization, l'ottimizzazione per i motori di ricerca, baratro perverso nel quale rischia di precipitare l'informazione senza paywall (almeno quella che speri di retribuire le proprie firme, capitalizzando sulle visualizzazioni per offrire auspicabilmente piattaforme pubblicitarie ben frequentate): è la logica dell'inseguimento del risultato di un algoritmo, che potrà rappresentare bene quello che la gente vuole, ma non quello di cui la gente potrebbe aver bisogno. Si rischia di chiudere proprio quegli spiragli d'apertura di cui parlavo, appellandosi per giunta all'incertezza economica della pubblicità, peraltro bloccata dalla maggior parte degli utenti con AdBlock e affini...
Immaginate questa scena. Un cliente entra in un panificio, prende un panino, lo assaggia, esclama "Bella merda!", lancia ciò che resta del panino in faccia al commesso, esce. Senza aver mai pagato. Surreale per quanto suoni, è quello che capita giornalmente nelle dinamiche dei siti internet d'informazione senza paywall. Tra chi scrive e chi usufruisce dei testi manca il patto classico della fornitura di un servizio o di un bene (che si può smettere di pagare, se delusi). La sopravvivenza non dipende più direttamente dal "cliente", ma dal responso di una terza parte (Google, YouTube) che tiene sotto scacco clienti e autori, con i primi spesso meno consapevoli del paradosso e i secondi vittoriosi solo quando diventano potenti influencer. Il gioco al ribasso è spietato, come sintetizzò bene Claudio "Keiser" Todeschini, ex-capo redattore di TGM, sfogandosi in questa sede.

Quante volte vi sarà capitato di vedere direttori e recensori di videogame abbandonare la nave per "il passo successivo"? Quanti di loro sono diventati pr, traduttori, addirittura game designer? O hanno proprio mollato tutto per un "lavoro vero", ricordando con nostalgia il loro periodo su quelle pagine come una fase di formazione, che non si sarebbe evidentemente mai potuta evolvere in un'espressione concreta di se stessi? Se questo accadeva già in epoca di vacche grasse, oggi siamo in una fase successiva: in alcuni settori professionali si scrive per hobby. Non riesco a concentrarmi sull'agonia dell'analogico e della carta, quando sono distratto dall'agonia di una professione.

Non è solo nostalgia
Non so quanti di voi conoscano il film I soldi degli altri (1991) di Norman Jewison, dove l'anziano capo (Gregory Peck) di una gloriosa azienda, in pari ma senza profitti perché obsoleta, sta cercando di salvarsi dall'acquisizione azionaria di un "liquidatore" di Wall Street, interpretato da Danny DeVito: sul finale, in due discorsi diversi agli azionisti, una visione di resistenza che si appella alla storia e alla tradizione si scontra con un'altra che non vuole sacrificare il denaro sull'altare del ricordo, a maggior ragione quando questo diventa un argine disperato a un progresso inevitabile, a una sentenza già scritta. Una scena davvero politicamente scorretta, perché guardandola si rimane scissi: col cuore si dà ragione a Peck, con la testa si ammette che il discorso di DeVito, spudoratamente antipatico o meno che sia, è sensato e condivisibile (a meno che non ci si opponga al sistema capitalistico intero, ma in quel caso la questione si fa più complessa). Il destino delle riviste di videogiochi rischia di provocare la stessa scissione, ma io almeno un punto fermo credo di averlo trovato, e ve lo lascio come chiusura... pragmatica.
La scrittura creativa giornalistica, se svolta per mestiere, avrebbe bisogno innanzitutto di tornare a essere retribuita direttamente da chi voglia usufruirne: questo per me non è il passato, è prassi eterna del do ut des più basilare, trasparente e franco. Non traballano solo le redazioni cartacee: chiudono anche siti web (vedasi Eurogamer.it), mentre quelli amatoriali o semiamatoriali si reggono sull'entusiasmo, finché la vita non richiama le persone a priorità remunerative. Personalmente sono abbonato ai contenuti digitali di un quotidiano nazionale, ci tengo e sono contento di ricevere le mail con le loro newsletter, anche se tangibilmente non stringo pagine in mano. Miro alla sostanza del rapporto tra me lettore e loro. Se però toccare con mano una rivista per qualcuno è psicologicamente l'ultima giustificazione per mantenere questa trasmissione diretta di compensi per chi lavora, questa può essere una buona ragione per sostenere queste realtà, magari abbonandosi per ridurre gli intermediari. Senza voler nulla togliere al collezionismo, alla nostalgia o alla storia dell'editoria, credo che sia la vera posta in gioco a monte.